L’Espresso / Cristian Ceresoli Interview, Seconda Parte
di Gianfranco Fiaschini, L’Espresso, 12 Febbraio 2021
Con gli occhi degli artisti. Cristian Ceresoli. L’ossessione per la scrittura. La disabilità tra censura e poesia.
Avrei voluto assistere a La Merda, di Cristian Ceresoli. Avevo bisogno di qualcosa di sferzante. Ma non ce l’ho fatta.
La merda è un’opera che ha ottenuto una miriade di premi, tra cui l’Edinburgh Fringe First Award 2012 for Writing Excellence, l’Arches Brick Award 2012 for Emerging Art, il Premio italiano della Critica 2012 come Miglior Spettacolo.
Si tratta di una tragedia in tre tempi e un controtempo, dedicata ai centocinquanta anni dell’unificazione d’Italia. Dove una splendida Silvia Gallerano, nuda sul palco, urla e sussurra ambizioni e passioni piccole di un’Italia piccola, ammaliando, conquistando pubblico e critica, tanto da meritare il premio The Stage Award 2012 for Acting Excellence.
Lo spettacolo non l’ho visto, non ce l’ho fatta. Ho letto il testo e ascoltato le registrazioni.
Cerco di rimediare oggi a questa mia mancanza intervistando Cristian Ceresoli, autore della piece, ma non solo.
La settimana scorsa è uscito il suo racconto Il dolore di scrivere.
Oggi esce la prima parte dell’intervista, che continua venerdì prossimo.
Chi è Cristian Ceresoli?
Mi è sempre un po’ difficile raccontare di me, o raccontare qualcosa di me. Mi è sempre più semplice descrivermi attraverso quello che scrivo, attraverso quello che è il mio mestiere, la mia vocazione. Perché c’è un’alta dose di personale, di biografico, un po’ in tutte le scritture in cui mi trovo a lavorare. È come se demandassi all’aspetto espressivo, estetico, poetico, il compito di raccontare un po’ di me.
Nel momento in cui provo a definirmi è come se fossi già scomodo in quella definizione che mi sono dato. È come se non fossi mai contento di fermarmi, di stare in una descrizione. Ogni volta che mi trovo ad affrontare questa domanda ho tutta una serie di difficoltà dovute al fatto che non potrei esprimere tutte le contraddizioni, tutte le caratteristiche della mia persona nella sua complessità. Quindi mi capita spesso di rispondere a questa domanda raccontando un brano, un pezzo, un’interpretazione, un punto di vista, che però non è mai esaustivo. Per esempio non avevo ancora mai parlato a nessuno del fatto che in questo momento sto finalmente cercando di raccontare a che punto sono, come sono. Perché recentemente ho avuto un serio problema di patologia.
Deglutisce. Inciampa sulle parole, indeciso su quale direzione prendere.
Ho avuto… Insomma, nel luglio del diciannove ho sofferto una forma di disturbo depressivo maggiore, che ha cambiato letteralmente tutto il mio paesaggio interno ed esterno. Adesso sono in una fase finale della malattia, dove però prendo ancora il massimo delle dosi del farmaco.
Questo è un momento in cui tendo a raccontarmi in base all’esperienza di chi in qualche modo si è ritrovato in una sorta di vicolo cieco, per il successo che abbiamo raccolto con questa mia prima scrittura, che è quella de La merda.
Forse questa malattia ne è stata la conseguenza, ma anche la possibilità per spingermi a diventare molto altro. Sono tornato a scrivere moltissimo, in diverse forme, una è quella del libro. Sto scrivendo un film, sto lavorando a un altro progetto cinematografico. Sto scrivendo su commissione uno spettacolo per un’attrice di circa cinquant’anni, che vorrebbe raccontare i suoi vent’anni all’interno del mondo Mediaset, all’interno di questo sistema di cui lei ha fatto parte in modo molto simile a quello che viene raccontato ne La merda. Sembra un po’ come se la protagonista de La merda mi fosse venuta a trovare in carne e ossa. Quindi è come se ci fosse sempre una grande confusione intorno a me e dentro di me.
Quali farmaci stai prendendo?
Da agosto del 2019 io assumo in particolare questo antidepressivo che si chiama Anafranil 75mg.
Stai facendo anche della psicoterapia?
Sì, sì, sì. Per fortuna anni fa, in seguito a una crisi personale di minore portata, ho iniziato un percorso con uno psicoterapeuta.
Di che orientamento?
A questa domanda Cristian ha un’esclamazione di sarcasmo.
Non l’ho mai capito. È un po’ sui generis.
A questa risposta mi viene in mente la mia psicoterapia/psicoanalisi, durata probabilmente troppo a lungo e con uno psicanalista che nei giorni migliori definivo Splendido ciarlatano. Volendo restituirgli con questo il prestigio e l’eccentricità del suo procedere.
In bocca al lupo per il tuo viaggio.
Lui è quello che mi ha suggerito e consigliato lo psichiatra che mi ha in cura, che vedo con una cadenza bimestrale ormai da due anni, da quando ho iniziato ad assumere questo farmaco.
Queste cose le posso scrivere?
L’assoluta sincerità di Christian e il suo mettersi a nudo, senza filtri, mi imbarazza. Mi chiedo se ho il diritto di esporlo agli occhi dei lettori in tutta la sua intimità. Glielo chiedo. Non sarà l’unica volta durante l’intervista in cui gli proporrò questa domanda. Mi chiedo anche che diritto ho all’opposto di non riportare quello che racconta, negando così il suo libero arbitrio. Decido di continuare.
Per tutto quello che riguarda me e il farmaco sì.
Quattro anni fa sono capitate delle cose inaspettate nella mia vita personale e pubblica che mi hanno portato a incontrare lo psicoterapeuta. Dopodiché, un po’ più di due anni, sono entrato in cura con uno psichiatra. Perché io prima ho sofferto di un disturbo ossessivo compulsivo, che una volta curato, secondo la teoria dello psichiatra, ha dato il là alla crisi depressiva maggiore del luglio del diciannove. Mi sono affidato a lui come medico ed esperto in materia.
Vivi a Roma?
Noi sì. La nostra base è Roma. Poi con l’emergenza Covid sono circa due anni che non facciamo più viaggi.
Quando dici noi a chi ti riferisci?
Io sono anche compagno nella vita di Silvia Gallerano. Siamo un po’ riservati quindi non ne abbiamo mai fatto cenno.
Tu sei stato spesso paragonato a Pasolini. Che cosa ne pensi di questo accostamento?
Fino a poco tempo fa non avevo la maturità per rispondere a questa domanda. Mi trinceravo dietro a un semplice preferirei di no, alla Melville di Bartleby lo scrivano.
Sento spesso accostare Pasolini a cose e persone, in maniera anche magari spudorata o semplicistica. Quindi, è come se non avessi mai voluto in qualche modo entrare in questo terreno minato dei riferimenti ad una figura come quella di Pasolini. Perché per me è un incredibile figura di riferimento. Attraverso i suoi articoli in particolare, e ad alcuni suoi film, mi sono avvicinato a una ricchezza straordinaria, a qualcosa che mi ha portato a scoprire molte cose dell’umano, delle diversità, delle minoranze, anche di un certo tipo di estetica, di bellezza. Quindi, per me sì è stato un processo in qualche modo artigianale, come di un maestro artista per un altro artista. Ma è stato anche un’indicazione importante per quello che riguarda la mia sfera personale, e quel mio interesse verso l’umano, verso l’essere umano in tutte le sue sfaccettature. Quindi, per me è sempre stato, e continua ad essere un riparo, una casa, un luogo prezioso dove ritornare, e attingere a questo pozzo che per me continua ad essere ricchissimo. Mi capita spesso di provare delle emozioni forti in un’idea, in una frase. Quindi, è come se avesse avuto sempre un rapporto molto intimo. Per questo nell’incipit de La merda ci sono le parole di Pasolini. “Non aver paura (…) Che sono abbastanza puzzolente anch’io per essere capace di non sentirmi legato a tutta questa merda”. Per la scrittura de La Merda mi è stata molto utile Salò o le 120 giornate di Sodoma.
E poi Pasolini torna anche in Happy Hour. Dove parliamo di quella dittatura ancora più dolce di quella fascista, che è in grado di distruggerci con dolcezza.
Nel mio immaginario ti avrei paragonato al Pasolini di Salò.
Perché un testo così duro come La Merda?
Io sono un osservatore del fatto che è stato considerato, e viene ancora considerato, duro. Trovo che sia esatto. Non c’è stata un’intenzione. Non c’è stata la motivazione di scegliere una forma. È come se in quel momento quel contenuto, che è stato in qualche modo concepito insieme a Silvia, concordato insieme a Silvia, fosse emerso da me, da noi in quel modo, anche se ancora non aveva la forma delle parole che poi ha raggiunto.
Penso che insieme alla durezza sia sempre emersa anche un certo tipo di ironia, il tentativo di essere duri e dolci nello stesso tempo. Partendo da una posizione di grande sensibilità, per scatenare questo flusso di coscienza che arriva effettivamente a scuotere profondamente, e a dividere.
Preferisco molto la definizione duro a scandaloso che è stata, ahimè, più spesso adottata quasi in termini promozionali. Nel senso che io e Silvia non abbiamo mai usato la parola scandaloso. Abbiamo sempre preferito la parola poesia. E la durezza è una forma che ha trovato questa poesia. Forse perché avevamo il bisogno di raccontare quello che abbiamo raccontato, di esprimere quell’universo, quel paesaggio, con una certa durezza, che riconosco e di cui mi rendo benissimo conto. Ho parlato spesso dei punti chiave, dei momenti in cui forse la scrittura è più dura. Però non è stata una scelta. Era l’unica forma possibile in quel momento per esprimere quel contenuto.
Ne La Merda non fai sconti a nessuno. Del resto non ne fai neanche in Happy Hour. La merda è un testo violento, volgare, eppure colmo di pietas. A chi rivolgi la tua pietas?
Sorride alla domanda
Intanto a chi ascolta. Per me era rivolta soprattutto verso chi avrebbe ascoltato, verso chi sarebbe stato coinvolto da quelle parole. Sentivo quasi la necessità forte di mantenere un equilibrio, di entrare in questo girone infernale. Però senza mai dimenticarsi della pietas che hai citato tu, un certo tipo di sensibilità direi. Quindi, verso chi ascolta, ma non di meno verso me stesso e verso Silvia. Nel senso che ho cercato di mettere molta mia biografia dentro a La merda, e molta biografia di Silvia. Questo per non prendere una posizione e rivolgermi a qualcosa in particolare. Ma per mettermi al centro della battaglia, al centro dell’osservazione, in prima persona.
È come se io mi confondessi con la protagonista e confondessi Silvia con la protagonista. Quindi, la pietas va per chi ascolta, ma anche verso me stesso, verso noi artisti che l’abbiamo creato. Perché c’era bisogno, anche per l’interpretazione che ne ha costruito Silvia, di questa nudità che non è soltanto formale, non è soltanto estetica.
È la stessa nudità che io sto cercando di far passare con il mio libro. In qualche modo mi sento dire spesso tra me e me “Adesso io scrivo tutto. Adesso non mi trattengo per nessuna ragione al mondo. Ora io in questo libro metto tutto quello che posso mettere, senza sconti e accettando poi quelle che sono le conseguenze anche su un piano personale”. Perché i protagonisti di questo libro sono poi i personaggi che ho incontrato e incontro nella vita. Questo libro ha molto a che fare con il mio disturbo depressivo, con i medici che ho incontrato, con le persone che ho frequentato, con quello che ci è successo nel mondo con La Merda.
Ho cercato di scrivere un libro su un fallimento. Cercare di scrivere un libro senza riuscirci è per me il libro che sto scrivendo. Quindi, anche in questo caso, cerco di praticare un certo tipo di dolcezza, di sensibilità, per chi lo andrà a leggere, e allo stesso tempo però anche per chi lo scrive.
Quando parli del libro parli della tua autobiografia?
Allora, guarda, la definizione migliore è quella di un libro scritto in prima persona che non riesco a scrivere. Tanto è vero che io in questo libro racconto di come ho iniziato a scrivere un libro, di come non riesco a scrivere, di come non riesco ad arrivare alla fine. È molto più semplice leggerlo che raccontarlo.
Hai già un editore?
Nel 2013, dopo il successo con La merda ho avuto delle case editrici anche importanti che si sono avvicinate. Ci sono state offerte molto interessanti. Ma questo in realtà è stato anche un freno per me. È stato proprio come se avessi avuto un problema a frequentare quella forma, la forma del libro, che forse è quella a cui io mi sento più vicino. Nel momento in cui si è verificata veramente la possibilità di farlo sono entrato in una sorta di mia difficoltà. E non sono mai riuscito a superare le tre pagine. Ho provato e riprovato, aborti su aborti, inizi su inizi. Quindi, in qualche modo anche le proposte da parte delle case editrici le sto mettendo nel libro. Pubblicare non è importante. Nel senso che per me è importante arrivare alla fine di questo processo, di questo Appunti per un libro che non sono mai riuscito a scrivere, oppure del Libro sul fatto di non riuscire a scrivere un libro. In fondo adesso sono a cento quaranta pagine. Penso che andremo sulle quattrocento, cinquecento pagine. Ed è una cosa veramente che mi fa ridere, perché tutte le mie scritture sono sempre state molto corte.
Ne La Merda neanche gli handicappati ne escono bene. Li rappresenti violenti tra i violenti. Però sollevi questioni importanti: isolati in classe, isolati dalle relazioni, con desideri carnali, non ridotti a meri angeli. Perché questo interesse per la disabilità?
Avevo una compagna di classe alle elementari e un compagno di classe alla scuola media. Con entrambe queste persone ho avuto una relazione, e c’era una specie di triangolo. Da una parte c’era la mia relazione personale con questa bambina e quest’altro ragazzino. Poi c’era la lettura che la classe dei bambini delle elementari e la classe dei ragazzini delle medie in qualche modo dava delle loro caratteristiche. Io sono cresciuto in una provincia, non che per carità sia differente nelle città, dove la percezione della disabilità era una percezione assai bigotta. Dove chi aveva questa diversità, così come io la riporto ne La merda, era semplicemente considerato una persona difettosa, che non stava bene frequentare. Però nello stesso momento io ho conosciuto anche l’aspetto personale, umano, di questa ragazzina prima è di questo ragazzino dopo. E in qualche modo mi sono ritrovato a costruire una figura poetica attraverso La merda, che viene spesso criticata da un certo tipo di benpensanti e moralisti, appartenenti a un’area politica di sinistra, che non hanno mai accettato il fatto che si potesse parlare con una certa schiettezza e con una certa crudezza, di un personaggio disabile. Perché in qualche modo non stava bene usare questa immagine, e definirlo con la parola handicappato.
Sono dieci anni che lavoro sulle traduzioni, affianco ai traduttori per cercare di restituire lo stesso tipo di sensazione che si ha nei teatri in Italia, ogni volta che dopo aver riso per una serie di immagini effettivamente comiche, la protagonista semplicemente dice la parola handicappato. Lì si è sempre creato un distacco da parte di molte persone e invece un coinvolgimento da parte di altre. Il più delle volte quel distacco è un distacco moralista. Nel senso che fino a ché parli di una grassona con le cosce un po’ grosse e un po’ sfigata, uso specificamente questi termini coloriti, finché si parla in qualche modo di una donna che subisce un sopruso ne possiamo ridere. Nel momento in cui però io vado a nominare la disabilità nei termini poetici di handicappato allora mi viene criticato. Non va più bene.
Da qui la Rai non l’ha mai trasmesso, ha trasmesso dei pezzi. Ovviamente, la disabilità che fa parte del testo de La merda e la scena con il disabile, oltre al nudo, oltre al titolo, sono tre elementi per produrre poi questa censura che ancora oggi noi viviamo. Noi abbiamo avuto molte poche possibilità nel nostro paese dopo aver avuto questo successo al Fringe Festival di Edimburgo.
Ho un singulto di disapprovazione nel sentire ancora una volta quanto possiamo essere provinciali in Italia.
Se noi ci riferissimo a tutto quel successo che abbiamo avuto, alle persone che venivano a vedere La Merda senza essere mai andate a teatro, e che erano molto più disposte ad accettare l’immagine che noi abbiamo costruito sulla disabilità, dovremmo dire che non sono poi state le stesse che perlopiù in questo momento gestiscono le istituzioni culturali, i teatri.
Ci siamo accorti a posteriori di quanto male facesse ad alcune persone la scelta di essere allo stesso modo duri e ironici. Io penso che ci sia sempre stata una scelta di pietas, cioè di sensibilità umana. È un racconto complesso, c’è protagonista un disabile, c’è protagonista in qualche modo un’altra minoranza che è quella appunto di una tredicenne bambina, che deve in qualche modo assecondare gli schemi e l’immaginario di una società che la conduce, e riproduce, e conforma, a un ideale di femminile che sappiamo bene essere impossibile da raggiungere. Quindi ci crea, e questo è un riferimento pasoliniano, quella famosa distanza da quello che non saremo mai, da quello che siamo e non potremo mai essere. Penso che l’immagine della disabilità sia in qualche modo più esatta in quel momento. Proprio perché si ha una riflessione a trecentosessanta gradi su che cos’è la vita, e su che cosa sono i corpi che la contengono.
Io sono in carrozzina e sono tetraplegico. Non mi sono sentito offeso dalla rappresentazione che tu hai dato, né dalle parole che hai usato. Anzi, mi sono trovato di fronte a una rappresentazione vera, che usciva dagli stereotipi e dalle narrazioni retoriche che sono per la maggiore in circolazione. Avete avuto problemi di censura?
Abbiamo avuto traduzioni in Brasile, in Danimarca, in Norvegia. Altre sono state bloccate per problemi di censura. Però era in prova in Grecia, e in Austria.
Quindi in Grecia è stato censurato, non è passato?
In Grecia purtroppo non è arrivato a essere portato in scena per problemi che non ho mai ben capito. Si trattava di una realtà molto interessante di militanti politici oltre che artisti, ad Atene. E lì non si è capito se poi fu la mancanza di un finanziamento dovuta a cosa. Mentre in Austria testo era stato portato da un regista austriaco, la traduzione era già stata approntata e lui aveva proposto un teatro femminista di Vienna, che invece ha specificamente bloccato la produzione non ritenendolo un testo femminista.
Ci sono stati dei tentativi in Messico, in Argentina. Non si capisce mai fino a che punto sono normali problemi che fanno parte del mondo, del settore teatro, del portare a compimento un’opera, oppure se anche lì le difficoltà sono state di altro genere. Però ti assicuro che è sempre molto difficile trovare degli interlocutori che siano disposti ad aprire uno spazio, a finanziare questo progetto. Rimane difficilissimo.
Mentre in Danimarca avete avuto persino la versione televisiva.
Grazie alla grande determinazione di Simon Boberg, il regista della versione danese, che è una persona di valore ed è importante nel panorama danese. Anche lì non è stato così semplice. Hanno dovuto iniziare con un teatro più piccolo, poi l’hanno portato a una sala più grande, poi allora la televisione ne ha in qualche modo parlato, ma perché contemporaneamente l’attrice aveva vinto un premio ed era diventata molto nota. Che è un po’ il percorso che è successo a noi. Noi abbiamo trovato spazi perché riempivamo sale da mille posti, E quindi spazi sulla stampa. Altrimenti noi non saremmo riusciti neanche a fare le repliche che siamo riusciti a fare. È che non certo punto il fenomeno era così tracotante, esuberante, particolare, che non ce ne si poteva non occupare. A parte i servizi televisivi Rai… Io ho avuto giornaliste che sono venute a girare pezzi che poi la redazione non ha mandato in onda. La Rai è arrivata a girare uno speciale su Edimburgo e dopodiché tutte le immagini relative al nostro progetto furono tagliate.
Senza l’interpretazione di Silvia sarebbe come guardare un concerto alla tv eliminando il sonoro. Come arrivi a proporlo a Silvia? Con i suoi cambi di registro vocale, con la sua qualità, valorizza in modo straordinario il testo.
La domanda che mi fai è molto importante, ci tengo molto a rispondere bene. La relazione che io ho avuto con le altre produzioni, con le altre interpreti, è stata veramente un’ottima relazione, sia in Brasile, che in Norvegia, che Danimarca. Ma in quel caso si è trattato più di un’attrice che interpretava un autore.
Nel caso mio di Silvia è molto diverso. Perché io e Silvia ci siamo incontrati prima. E in qualche modo abbiamo concepito insieme, senza troppo parlarne, i primi dieci minuti. Sono poi quelli che abbiamo provato a portare nel mondo, che abbiamo portato a un premio a Udine. Quindi io mi sento madre, ti assicuro che non è una provocazione ma è vero. Io mi sento più la parte femminile. Mi sento più la madre e sento Silvia come il padre di quest’opera. Io poi mi sono ritagliato il mio ruolo e Silvia non è mai entrata nella mia competenza, nel mio mestiere di scrittura Così come io non sono mai entrato nella sua costruzione interpretativa. Io ho curato la parte estetica dell’oggetto, della luce, ho proposto la nudità, lo sgabello. Però tutto quello che ha costruito Silvia è stata una sorta di alchimia tra l’attrice e uno scrittore. È per quello che poi non firmiamo mai la regia, perché è come se non ci fosse stato un terzo aspetto. È stato un incontro tra l’esperienza, la capacità, il coraggio e il rischio che ha messo in campo Silvia. Soprattutto interpretandolo in una lingua non sua, andando a farlo in giro per il mondo in inglese, o comunque affrontando così tante volte un pubblico anche grande. Il confronto con una platea di cento, duecento persone, ti permette un certo tipo di esperienza. Però tenere questo confronto, e questo aspetto della nudità, del denudarsi completamente, del darsi in pasto di fronte a platee come quelle di mille persone, è sempre stato una testimonianza in qualche modo di grande coraggio da parte di Silvia, ma anche di straordinaria e particolare bellezza, di estetica.
Noi ci siamo ritrovati insieme padre e madre di un’opera. Abbiamo sempre poi definito lei come attrice, io come scrittore. Ci siamo trovati insieme a produrre questo che poi è diventato invece un piccolo fenomeno. Secondo me è proprio nel corpo, nella voce di Silvia, che si manifesta La merda. Sono contento che si possa manifestare in forma di libro. Ma la sua natura primigenia e naturale, è proprio quella del corpo, della voce, dell’anima, dell’intelligenza, e del coraggio di Silvia.
Tu hai parlato di concepimento, Concepimento artistico ma non solo. Tu hai un figlio con Silvia.
Due.
Cristian mi corregge mentre sorridiamo dell’esplosione di felicità che accompagna il suo rimarcare.
Cristian mi racconta che Lara ha dodici anni, vuole fare la scrittrice. Nicola, il figlio minore, è stato concepito a Londra. Lara ha seguito i genitori in tutte i paesi dal tour de La Merda, Francia, Germania, Inghilterra, di nuovo Inghilterra, Spagna, Australia, Canada. Nicola è stato in Canada, è stato allattato fino a un minuto prima di andare in scena, quando poi Silvia lo passava a Cristian.
Christian mi fa davvero entrare nel quotidiano mestiere dell’artista, la dove si alza la polvere del palcoscenico.
Loro fanno parte, e questo ci sarà nel libro, della storia concreta e dell’aspetto personale di quest’opera. Quando noi cominciamo a ricevere tutti questi riconoscimenti ad Edimburgo, questi premi, ne rimaniamo un po’ sconcertati, persino turbati. Il concepimento di Nicola avviene proprio dopo l’ultima replica del debutto al festival di Edimburgo de La merda. Ce lo ricordiamo bene perché è stato un momento personale nostro ma che poi è diventato anche una storia condivisa.
È una bellissima storia d’amore, artistica, di figli, di vita, di arte. Bella. Bella da raccontare e immagino ancora di più da vivere.
Da raccontare sì. Da raccontare sì. Da vivere ha i suoi costi, che accetto, che non rifiuto ovviamente.
Quando uno è ossessionato dalla propria arte non può farne a meno, costi quel che costi. È così?
È una domanda molto intelligente e precisa. Ora posso parlarne con maturità, per questa malattia che mi ha colpito. Il punto è riuscire a trattare questa ossessività, questa ossessione, e continuare comunque a vivere con mio figlio e mia figlia, con Silvia. In qualche modo è stato molto difficile vivere questa ossessione, e poi viverne anche le ricadute, gli aspetti oscuri, le difficoltà. C’è voluto molto tempo per riuscire a comprenderla, ad accettarla, e comprenderla, e cercare di vivere in qualche modo gli aspetti buoni e sani. Perché per molto tempo io non sono riuscito a mediare. Questa ossessione sbrodolava sul personale, sbrodolava sulle relazioni. Io ho avuto un grande imbarazzo per molti anni a relazionarmi sul lavoro con le persone che incontravamo. Tendevo a essere riconosciuto come un antipatico, oppure un chiassoso. Proprio perché erano le due forme che trovavo in qualche modo per cercare di svegliarmi la mattina e di andare in giro per il mondo.
Questo è stato quello che secondo me mi ha portato ad ammalarmi così gravemente. Però sono riuscito finalmente a vivere quelle mie ossessioni.
Complimenti anche a Silvia. Ha retto l’impatto delle tue ossessioni e della tua depressione.
Sì. Perché a sua volta ha lo stesso tipo di problemi secondo me. E quindi ci siamo riconosciuti fratelli e sorelle anche in quell’aspetto.
Dell’ossessione o della depressione?
No. Dell’ossessione in questo caso. Silvia per tutte le repliche della merda per un certo numero di anni, e ancora oggi, ha un momento di grande fragilità nei giorni precedenti, nelle settimane precedenti, nelle ore nei minuti precedenti. Ha dei momenti di grandissima fragilità psicofisica che in quel momento invece io dovevo cercare di considerare e di accogliere. Così come lei ha considerato e accolto la fase più dura della mia depressione. Perché secondo me ci si è riconosciuti oltre che amanti proprio come esseri umani.
Ti ringrazio per la sincerità e l’intimità che mi stai regalando.