L’Espresso / Cristian Ceresoli Interview, Terza Parte
Gianfranco Fiaschini, L’Espresso, 19 Febbraio 2021
Con gli occhi degli artisti. Cristian Ceresoli. Il corpo delle cose e la morte.
Ci sono modi diversi di spogliarsi. C’è il modo di Silvia Gallerano che compare nuda in scena su uno sgabello nel rappresentare La merda, ma di questo parleremo con lei la prossima settimana. C’è il modo di Marco Ceresoli che si mette a nudo attraverso le parole, esponendosi così agli sguardi impietosi del pubblico. Questa è l’ultima parte della sua intervista.
Perché chiami partitura il testo de La Merda?
La partitura è una mia adorata forma d’espressione. Siccome amo molto la musica mi sono avvicinato allo studio delle strutture musicali, alla matematicità del lavoro di composizione della musica. Insieme a Pasolini scoprivo Bach. Non tanto studiandolo sui libri, ma passando un incredibile quantità di ore al giorno nell’ascolto delle sue partiture. Una cosa che poi ho smesso, che però mi ha caratterizzato per circa quindici anni. Quando mi sono trovato a scrivere la forma ideale per la scrittura per me è stata proprio quella del canto. La merda è scritta in tre movimenti e un contro movimento, come se fosse una partitura. Mi trovo molto a mio agio nella costruzione di partiture letterarie perché offre un’incredibile libertà espressiva.
Per me ancora oggi l’esperienza della scrittura è un’esperienza fisica. È paradossale perché la scrittura si sviluppa attraverso due mani che toccano dei tasti. Però è come se il mio trasporto avesse una matrice fisica, corporea. Di conseguenza il lavoro che nasce con Silvia e con gli altri attori mantiene questa caratteristica. Per poter svolgere queste partiture, raccontando quello che raccontano, vengono richieste grandi capacità mnemoniche e di immedesimazione, un portato fisico del corpo, del sudore, del sangue, straordinari, di essere generosi ma allo stesso tempo precisi. Mi è capitato di incontrare delle persone molto generose ma imprecise sulla partitura, o precise sulla partitura ma aride nell’interpretare. Quindi, l’incontro con Silvia è stato un incontro molto fortunato per me. Così come l’incontro con Stefano Cenci in Happy Hour, e con gli interpreti in Danimarca e in Norvegia che sono stati in grado di tenere fede alla precisione della partitura musicale ma di dare anche tanta carne.
Mi stai svelando la macchina scenica e della scrittura. Queste partiture le leggevi o le ascoltavi?
Ascoltavo. Io spesso lascio la radio accesa su programmi culturali, notiziari, e contemporaneamente ascolto musica. In questo periodo riesco ad ascoltare anche della musica cantata, quindi con parole in inglese, in italiano, e nello stesso tempo scrivere. Per me è un esercizio necessario perché è un modo per imparare anche a gestire musicalmente una scrittura, a mettere insieme più contenuti, a far coesistere per esempio due, tre personaggi in uno, se si tratta di costruire un personaggio, oppure a far coesistere le caratteristiche di una persona, di un personaggio, nella stessa frase. Ancorché, a volte negli scritti in poesia, nelle stesse parole. E questa cosa me l’ha insegnata Bach, il contrappunto bacchiano. Back seguiva una, due, tre linee melodiche contemporaneamente. Non abbiamo un coro è una voce solista. Glenn Gould a proposito di Bach diceva che è un’esplosione simultanea di diverse idee.
Torniamo al corpo. Che cos’è per te il corpo e che ruolo ha avuto nel tuo teatro?
Per me il corpo nell’arte, nel teatro, non è certamente quella cosa che ha due braccia, due gambe, e una testa, se ci riferiamo al corpo umano. Quando tu mi chiedi di corpo nel teatro io penso a Shakespeare. Penso alla vita chi si annida dentro a quelle scritture, e poi anche a tutte le donne a tutti gli uomini che le hanno interpretate nel tempo, e ancora oggi. Penso alla sostanza delle cose. Penso a una sostanza che gronda sudore, ma anche sangue. Perché l’ho sperimentata anche dal punto di vista fisico. Cioè io ho avuto la possibilità di praticare l’arte in assenza di parola con Grotowski e con Gabriele Vacis. Ho fatto esperienza di mesi, di pratica di espressione corporea in assenza di parola. Però per me il corpo non si riferisce in particolare a quell’esperienza, ma si riferisce più a quello che consegue da quell’esperienza, che può anche diventare verbale come ne La merda. L’importante è il corpo delle cose, la sostanza, il fatto di non fare sconti a nessuno, e non fare sconti verso se stessi. Il corpo per me è un po’ l’essenza. È il cuore.
Mi piace quando in italiano diciamo corpo come per dire la parte centrale, la parte fondamentale. Per me il corpo è la sostanza.
Gli altri tuoi lavori sono in continuità con La Merda?
Happy Hour sì. Ed è in preparazione una terza opera. È come se La merda, Happy Hour, e questa nuova opera fossero tre parti di uno stesso dipinto. La nuova opera, che immagino con un grande numero di interpreti, sarà un’altra parte dello stesso paesaggio. Per quanto riguarda il film che sto scrivendo con Roberta Torre, e per cui abbiamo anche vinto un premio al Ministero per la scrittura della sceneggiatura, non è in continuità. E allo stesso modo sto scrivendo con un regista irlandese un progetto per una serie TV, e ancora una volta non è in continuità. Il libro si. Poi che cosa significa continuità. Nel momento in cui mi trovo a trattare la materia della scrittura, e di tutto quello di cui ti ho parlato, del corpo, della sostanza, della forma, dell’esprimersi in poesia, è chiaro che parlo della sostanza delle cose. Quello è il terreno su cui mi sembra di muovermi quasi sempre, un terreno comune in tutte le mie scritture.
Quello che cerco è di esprimermi costruendo storie, costruendo visioni, paesaggi, mondi, particolareggiati. Però senza mai allontanarmi dalla sostanza delle cose che è politica, che è sociale, che è antropologica, che è quotidiana. Che è quello che insieme stiamo vivendo, ma che abbiamo continuato a vivere e continueremo a vivere.
Non so con quale concezione poi uno voglia vedere il tempo. Però spesso quando scrivo mi sento in connessione con quello che è stato prima, con lo scrivere, il vivere, e quello che sarà dopo. Quindi rimane comune per me in tutte le scritture una percezione trans temporale, e una scelta di poesia su quello che poi ha delle ricadute sul quotidiano.
La pandemia ha messo in risalto i guasti del teatro italiano. Da dove arrivano? Come si può uscirne? Mi sembra che tu di questi guasti sia espressione. Sei dovuto migrare per trovare i tuoi spazi e il tuo successo. Il tuo vero trampolino di lancio è stato Edimburgo.
Esattamente, esattamente. Senza Edimburgo noi artisticamente saremmo morti. Vedevamo solo la via del suicidio, cioè del cambiare mestiere, con tutte le problematiche che avremmo avuto. Perché avendo una tensione così grande sarebbe stato molto difficile non vivere da artisti. Ancora oggi è difficile, ho problemi economici, romanticamente, come si dice degli artisti. Nel mio caso è proprio vero. Io ho continuamente la battaglia del raggiungimento della quota dell’affitto, del poter riuscire a fare la spesa, del poter pagare per i propri figli. Ma non è affatto un problema. È una cosa che è consustanziali alla mia vita. Sono sereno.
Ho avuto in passato dei momenti di sconforto quando non avevo letteralmente l’euro nel portafoglio per pagare un caffè. A volte io aiutavo Silvia. Poi è successo a Silvia di aiutare me. In questo momento il lavoro con l’estero per me e il lavoro con il cinema di Silvia ci ha portato a una fase leggermente migliore. Non ci troviamo con le pezze al culo come anche solo quattro o cinque anni fa, dopo aver fatto tre o quattro anni di tour in giro per il mondo. Ti assicuro che il tour mondiale non ha portato grandi redditi. Perché se giri per il mondo vai in tanti posti, e chi ti ospita deve pagare i giorni lavorativi per te, per i tecnici, deve pagare i costi di viaggio. Andare in Canada e andare in Australia è stato un grande costo. Ci sono stati dei festival molto onerosi, che all’artista corrispondevano solo una parte. Questo se vuoi è uno dei problemi strutturali che noi abbiamo messo in risalto occupando un teatro al centro di Roma, al centro dell’Europa, che è stato il teatro Valle occupato per tre anni.
Io e Silvia Gallerano e tantissimi altri artisti attivisti, abbiamo messo in risalto come per esempio non c’è solo un problema di mancate risorse. C’è anche un problema di cattiva gestione delle risorse. Ovvero, molte istituzioni teatrali hanno dei costi altissimi per le strutture e molto poco poi rimane per i progetti, e per gli artisti. Questo è un problema.
Erano stati fatti degli studi durante l’occupazione del Valle, parliamo del settanta, novanta per cento dei fondi per mantenere in vita le strutture, e per i progetti rimaneva il dieci per cento.
Questo era un guasto che era venuto a galla e resta a galla inesorabilmente. Perché intanto tutta una serie di persone perdono il lavoro, e poi quasi nessuno di questi teatri si è mai preoccupato, salvo rare eccezioni, del proprio benessere economico, cioè del proprio sostentamento. Hanno sempre mirato ad ottenere le caratteristiche necessarie per ottenere il finanziamento triennale successivo. Quindi hanno sempre cercato di far fare tante repliche alle proprie produzioni. Hanno sempre adottato la logica di scambi, hanno cercato di ospitare gli spettacoli del teatro della città X per poi andare nella città X per fare lo spettacolo Y prodotto dalla propria realtà. Questo non tanto per fare girare delle economie ma per accumulare delle giornate lavorative.
Più giornate lavorative un teatro, un’istituzione, dimostra, più ha diritto ai finanziamenti dell’anno successivo. Questo ha portato i teatri a una crisi straordinaria, li ha svuotati. I teatri non si sono mai domandati come ci siamo dovuti domandare noi “Come si fa a gestire un teatro da mille posti?”.
C’è il contenuto, c’è l’opera che io porto, ma c’è anche la relazione, c’è anche la pubblicità e il marketing. Non sono dei diavoli di destra, non sono delle forme oppressive. Sono delle forme che chiunque vive in una società deve rispettare. Abbiamo dovuto occuparci della pubblicità dello spettacolo La Merda, dovevamo pensare alle persone che sarebbero volute venire ad ascoltare questa cosa in particolare.
Molte realtà che si definiscono di ricerca sono anni che ottengono finanziamenti medio piccoli per continuare a produrre in proprio e rivolgersi, ahimè, a un gruppo sparuto di addetti ai lavori. E parliamo di quello che viene definito teatro di ricerca, teatro sperimentale. Dall’altra parte, ci sono quei teatri commerciali, tantissimi teatri, che riempiono i teatri solo con nomi televisivi o comunque con nomi che hanno girato la rete. Il che vuol dire che molte volte hai delle opere di qualità e straordinarie, ma molte altre volte hai solo dei ciarlatani che ti servono a riempire il teatro.
Noi, con la nostra storia, con la nostra prima produzione, che ci ha fatto terra bruciata attorno abbiamo voluto provare a proporci in quei teatri anche commerciali portando una proposta poetica. Ma non seria, non superiore, solo la nostra proposta di artisti, poetica.
In alcuni ambienti è difficile anche parlare di David Bowie perché è troppo pop, per quella che una sparuta macchia di sedicenti artisti di ricerca, illuminati, ritengono che sia la loro missione, e quello che la cultura debba fare. Secondo me questo è un grande equivoco che deriva dagli anni Settanta. Abbiamo un retaggio culturale, di produzione intellettuale e intellettualistica, che parla solo ad alcuni, e ha lasciato il campo libero ad altri, a Silvio Berlusconi, ad altre proposte come la sua.
Cristian si interrompe. Si focalizza sul corpo, sulle proprie sensazioni.
Aspetta un attimo che bevo. Sento la voce impallata. Le medicine purtroppo mi asciugano la saliva tra le altre cose. L’antidepressivo ad esempio, una cosa che ho scoperto, non mi fa più lacrimare. Mi commuovo, mi rattristo, senza riuscire a ad espellere delle lacrime.
Prendo spunto dalle sue parole per proporgli la domanda successiva.
La pandemia ma non solo, anche la tua storia clinica, ci fanno confrontare con la nostra fragilità, con l’idea della morte. Che cosa è la morte per te? Come possiamo confrontarci con l’idea della morte?
Sospira profondamente prima di rispondere come se prendesse la rincorsa.
Ho un punto di vista fortunato. Perché concretamente dispongo delle risposte a questa domanda.
Il mio psichiatra e il mio psicoterapeuta sostengono, e lo ritengo anche io, che nel momento della pandemia, tutto questo tipo di patologie è peggiorato.
Perché non potendo più frequentare altre persone, spesso non potendo lavorare, questo isolamento nutre proprio il lato peggiore di queste malattie. Sicuramente io ho fatto molto più fatica perché prima semplicemente non passavo mai una settimana intera a Roma, perché c’erano tante repliche in giro, perché venivo invitato. In più mi piaceva molto questo equilibrio di trovarmi in solitudine per alcuni giorni, sette, otto, dieci giorni, e poi trovarmi in viaggio. Adoro proprio viaggiare. Quindi, sicuramente il quadro clinico viene aggravato.
Per quel che riguarda la morte è come se per la prima volta nella mia vita potessi disporre di risposte proprio per lo stato in cui io sono caduto il 15 luglio del 2019. Io ho avuto un’esperienza che per me è un’esperienza di morte in vita. Mi sono svegliato alle cinque di mattina al buio, angosciato, come se avessi subito un grave lutto, come se fosse morta mia figlia. Ti assicuro che la sensazione era d’angoscia, senza capire l’origine di questo. Senza avere avuto tra l’altro casi come questo nella mia vita a cui fare riferimento.
Questa angoscia mi ha molto spaventato. Mi sono ritrovato in piedi, in una stanza, senza avere nessun tipo di stimolo. Non avevo fame, non avevo sete, non avevo sonno, non avevo niente da fare di interessante. Ad un certo punto quello che mi sono detto è stato “Prova ad andare in bagno a fare pipì”. Dopo aver fatto pipì sono entrato in uno stato pressoché catatonico. Laddove l’unica possibilità è stata quella di vedere davanti a me la sagoma di Silvia, di aggrapparmi a lei.
La mia fortuna è stata quella di trovare Silvia e tutto quell’incredibile numero di persone che invece ha capito, ha compreso. E si è relazionata a me non in modo accondiscendente, e mi ha sempre tenuto in considerazione, non mi ha emarginato.
Per me l’esperienza più simile alla morte è stata quella. Io me la ricordo nitidamente e l’ho già descritta nelle prime pagine del mio libro. Nel tempo, nell’avvicinarsi della pandemia è come se io avessi iniziato la mia fase di risoluzione della malattia. E come se avessi iniziato a guarire proprio nel momento dell’inizio della pandemia. Quindi, io ho continuato a guarire, solo in modo estremamente più lento e con uno strumento incredibile verso questa pandemia. Perché arrivando dalla mia posizione patologica, dalla mia malattia, è come se avessi potuto considerare tutti, la situazione in cui l’umanità è entrata, con più lucidità. Ma senza essere troppo prosaico o poetico. Per esempio mi è molto più facile capire questa mancanza di speranza nel futuro che hanno già i bambini delle scuole elementari o i ragazzini delle superiori, non solo nel nostro paese. Questa è proprio un tipo di sensazione che si sperimenta con la depressione.
La depressione ti toglie qualsiasi tipo di interesse e di entusiasmo nelle cose che fai. Fai delle cose semplicemente perché il corpo ha un meccanismo. Quindi un determinato numero di ore le dormi, altre non le riesci a dormire, stai dritto, seduto sul letto. Non riesci a star fermo perché star fermo ti angoscia. Non riesci nemmeno a far nulla perché sei completamente debole, stanco. Ti viene da addormentarti. Quindi, la sensazione che io ho avuto a lungo, e ancora oggi ho, è di svegliarmi la mattina e non vedere l’ora di addormentarmi la sera. Perché l’unico momento che avevo tregua dalla morte era il momento in cui chiedevo gli occhi e mi addormentavo.
La tua storia privata e la storia collettiva hanno un punto di incontro.
Hanno coinciso. Qualcuno ha detto “Hai semplicemente avuto una sensibilità tale da vivere tale fenomeno con anticipo”. Lo so. Mi fa ridere.
Da quello che ho visto di Happy Hour sembra che questa ipotesi fantastica non sia poi così fantastica. Sembri anticipare i tempi della pandemia quando parli degli anziani abbandonati, della costrizione alla felicità che non guarda la realtà. Mi sembra la descrizione del momento che stiamo vivendo in cui gli anziani muoiono nelle RSA e a cui non possiamo tenere la mano.
Guarda. È così opportuna questa riflessione, che proprio per questa ragione Happy Hour è stata una delle ragioni della mia malattia.
Happy Hour non è un’opera così riuscita come La merda. Dal punto di vista estetico è effettivamente uno spettacolo che fino a un certo punto ti conquista, ti trascina, per poi invece perdersi. In qualche modo in quel momento per me la forma più adatta per esprimermi era quella del fallimento. Secondo me Happy Hour ha avuto un successo relativo perché sono conosciuto in Danimarca, Svezia, e l’hanno voluto mettere in scena. E anche in Italia un piccolo aiutino, diciamo così, dal teatro Metastasio di Prato c’è stato. Però io penso che ci sia questa cosa che in qualche modo fallisce, proprio perché io ero già vittima di questo tipo di sensazione. Anche proprio nei termini in cui tu l’hai descritta. Non l’ho voluta fare così. Io ho cercato di farne un’opera che potesse funzionare, che avesse il suo giusto intrattenimento, ma non ce l’ho fatta. Guardandola mi addolora, mi dispiace, perché penso di non essere riuscito a confezionare quell’opera in maniera estetica, in senso buono. A un certo punto si sfascia.
Quanto è difficile portare in scena un nuovo prodotto?
Qual è il problema? Che ancora oggi nei diversi settori, e questo con la pandemia viene allo scoperto, è molto difficile per molti artisti riuscire a pubblicare un libro, a presentare al pubblico uno spettacolo. Oggi viviamo un fenomeno nuovo che io leggo con grande interesse, che è quello dell’autoproduzione. Oggi ci sono fenomeni che muovono ingenti capitali come con Billie Eilish, dove il video dell’ultima canzone è un video che ha fatto suo fratello in un ipermercato, ed è una produzione pressoché artigianale, che però diventa poi anche una scelta stilistica, espressiva.
Secondo me non vanno a vincere tanto le strutture grosse e finanziate che pensano di riuscire arrivare a farsi ascoltare semplicemente mettendo in fila una serie di titoli e facendo un podcast. Secondo me riusciranno a farsi ascoltare quelle persone che hanno avuto sempre, come l’abbiamo avuto noi, il problema di arrivare a doversi presentare al consesso umano, alla cittadinanza, al paese, alla quotidianità, cioè riuscire ad essere pubblici.
Perché vengono fatti milioni di spettacoli con una replica e cinque spettacoli che durano più di un anno? Quando potremmo occuparci di fare cose più durature, più belle, meglio organizzate, meglio allestite, far durare di più le buone idee? Perché questa schizofrenia? Perché una casa editrice oggi per sopravvivere deve fare un tot di pubblicazioni? Perché oggi si crede così poco nei progetti e bisogna farne tanti? Perché tanti festival? Questa è una schizofrenia secondo me. Ed è contrastata dal fenomeno dell’auto editing. Ora c’è una paralisi. Non si fa niente. Le cose più valide vengono dall’autoproduzione.