Il Suggeritore / La Merda: come se Marilyn avesse incrociato Franca Valeri, o Cenerentola avesse crashato le favole dark di Tim Burton
di Maria Concetta Napoli, Il Suggeritore, 6 Dicembre 2011
Come se Marilyn avesse incrociato Franca Valeri, o cenerentola avesse crashato le favole dark di Tim Burton
Ci sono molti modi di stare vestiti e anche di essere nudi in scena: il punto è, se sia plausibile per noi anime belle che guardiamo, associare allo schifo del titolo la “nostra sovraesposizione” continuativa a questo nudo femminile frontale, bianchissimo e inequivocabile, assolutamente indifeso, eppure sulla difensiva.La straordinaria performer Silvia Gallerano (che artisticamente ha tutta la pellaccia dura di un Rezza per intenderci), riesce benissimo a trasmettere agli spettatori tutta la tensione di un corpo rivelato, ma anche non concesso fino in fondo, raggomitolato com’è in bilico a una sedia, con una gamba spesso penzoloni in modo adolescenziale. Chi scrive si rammenta ancora dei rituali rimproveri ricevuti da parte di una nonna tradizionalista per via di queste posture appollaiate, scomposte e quindi, sconvenienti per una ragazzina suppostamente ben educata….. E ferma deve essere rimasta ad un inconsapevole stadio di lolitismo de noantri, la protagonista di questo toccante soliloquio, ossessionata da due questioni fondanti e strettamente intrecciate per lei: l’ampiezza del giro coscia e un incessante dover essere, coincidente, come da manuale, con la figura maschile proiettiva, un super io, insomma, che è il babbo, un babbo patriottico in modo retorico, e che sembra essere più che un coach per la figlia, una sorta di baedeker di luoghi comuni ed esilaranti banalità di buona volontà. Sola, come Gallerano già ci ha insegnato in precedenti lavori, rimane la coscienza infelice della figliola. Sono assenti infatti figure di solidarietà e rispecchiamento femminile per la nostra eroina, bensì le tocca una sorta di estetista matrigna dai tredici anni e in seguito, come apprendiamo, un coacervo di miserie maschili. Non siamo dalle parti di Bellissima, per intenderci, in cui una figlia avvenente o supposta tale viene imposta con forza da una madre tigre in cerca di riconoscimento e riscatto sociale per due, né dalle parti del cigno nero, in cui la madre cova e spia il mostruoso talento della rampolla, parziale compenso del proprio abortito successo e neppure dalle parti delle ochette da aperitivo di provincia che partecipano a tutti i concorsi per modella o miss qualcosa….. La nostra ragazza è una operaia dell’apparire, in una ipotetica gerarchia sociale del tubo catodico. Sa che deve lavorare sodo sul suo giro coscia se vuole emergere. È una proletaria o sotto proletaria, senza il contesto della fabbrica dietro o di costosi e sfiancanti corsi a pagamento di qualcosa come da retorica di film americano sul “farcela da soli”: neanche all’orizzonte si intravede un principe azzurro come capitava alla Jennifer Beals di flash dance: non ci sono tanta bellezza, tanto dinamismo, tanta chiarezza di intenti e ancora talento nella nostra. Inoltre, questo suo lato edipico infantile le impedisce una autentica volontà seduttiva verso terzi.La nostra eroina pseudo televisiva non è una spregiudicata pettoruta d assalto alla Nicole Minetti, per intenderci. é una creatura che vive più di paura che di rabbia un a poor cow candida e indolente, nata per compiacere gli altri, o meglio, la propria interpretazione di ciò che il sociale richiederebbe da lei. Non è neppure in grado di sgomitare e fare sgambetti per arrivare, forse perché corre in solitaria, senza competitors che se stessa.Silvia Gallerano, con grande perizia, riesce ad evitare il patetismo della vittima designata azzeccando una corda di svagatezza acidula e lamentosa, naturalmente in positivo, come come va di moda ciarlare nella falsa coscienza sociale: come se Marilyn avesse incrociato Franca Valeri, o cenerentola avesse crashato le favole dark di Tim Burton. Poiché però in suo sollievo o sostegno, non arriva nessuna mammà né alcuna fata, la prova delle prove sarà solo quella relativa alla aderenza o meno alla anatomia dominante dei corpi usa e getta.Forse Marx con la sua analisi sociale e Ferreri con il suo nero grottesco sono due numi ispiratori del giovane drammaturgo in ascesa Ceresoli, poiché il sacrificio cannibalico finale che si chiude in una bandiera sudario, esprime benissimo il concetto della totale alienazione e perdita del sé identitario del genere umano tutto, prima che femminile. Siamo, insomma, oltre il feticismo delle merci, ma sempre vittime consenzienti del Capitale nelle sue varie epifanie di misteriosi mercati, senso comune televisivo, rigurgito patriottardo. Lo spettacolo, nonostante o forse proprio a causa di guizzi ironici e autoironici esprime un senso di morte, compare stretto del senso estetico di massa: il suicidio è l’unico orizzonte possibile per chi si senta inadeguato al modello unico. Siamo forse dalle parti di Non si uccidono cosi anche i cavalli, per il sentore di crisi epocale che emana dal monologo, ma anche, forse, in controluce, riconosciamo il senso del sacro delle epopee testoriane. Silvia Gallerano, si pone con grande naturalezza in una scomoda zona di confine tra le eroine del grande lombardo e il fumetto, in equilibrio tra Betty Boop e lo sfattume di certi personaggi di Altan, mentre ci snocciola tutta la retorica della sessualità rubata, del mostrarsi, del provarci, del farcela, del migliorarsi intanto che si infligge inaudite, ma molto comuni torture psicofisiche in vista della sua inconsapevole meta: lo sciogliersi nel grande corpo sociale anestetizzato. Silvia Gallerano è attrice autrice qui, capace di evocare un mondo. Conta ciò che viene detto in scena, ma anche di più ciò che possiamo solo immaginare della biografia da povera gente e della formazione da rotocalco di questa ragazza. In questi giorni confusi mentre scrivo queste note, mi arrivano numerose segnalazioni e sollecitazioni circa il testo dell’americana Nina Power, La donna ad una dimensione, inerente la nuova mitologia contemplata pure da donne del fronte progressista emancipatorio, che celebra la donna con le palle socialmente utile, funzionale alla complessa macchina capitalista di oggi, che pensa positivo, è felice di esser-ci, cooperante e collaborativa, deprivata, intanto della capacità di esprimere soggettività con il corpo e con il sesso. La nostra protagonista sembra aspirare a questa dimensione con tutta la goffaggine che può appartenere ad una sfigata della provincia globale, ma finisce per essere eversiva nel suo fallimento. Il momento della bellezza (il lampo della consapevolezza intravista, forse?) arriva fuggevole anche per lei. , quando si gira di trequarti in chiaroscuro, ed è il bello classico italiano, una Paolina Bonaparte di marmo funebre, che tende all’eleganza oltre la carnalità. Ricordiamo che questo secondo studio made in Ceresoli dal compilando catalogo del Disgusto, andrà all’estero, in particolare al festival di Edimburgo in estate e che è dedicato ai 150 anni dell’unità di Italia: una Italia che, come già stigmatizzò Pasolini si modernizza e si sviluppa, ma non progredisce e divora il suo stesso sviluppo.Una Italia che non è un paese né per i giovani, né per le donne ma tantomeno per la bellezza e la poesia, bisognoso di un nuovo umanesimo.